La notte nel cuore, trame turche, Tahsin: ‘A Sumru non rinuncio, a costo della vita’

La pioggia batteva con insistenza sui vetri della città, un ritmo funereo che tentava invano di lavare via le colpe antiche e le promesse mai mantenute, mentre Istanbul, sotto la sua apparente quiete notturna, nascondeva segreti troppo pesanti per essere raccontati ad alta voce, un palcoscenico umido e tremolante dove Tahsin, avvolto nel suo cappotto scuro, tornava a camminare con il cuore pesante e gli occhi pieni di una determinazione ossessiva, portando con sé una vecchia cicatrice sull’anima e il nome di Sumru stampato sul petto, la donna che aveva amato, ferito e mai dimenticato, la cui assenza lo aveva divorato per mesi. Egli non cercava il perdono immediato, ma solo la possibilità di esserle utile, anche da lontano, anche senza nulla in cambio, un sentimento ostinato che aveva cristallizzato in una promessa solenne e drammatica, quasi un patto con il destino pronunciato a bassa voce con lo sguardo fisso sulla porta del suo nascondiglio: “A Sumru non rinunciò nemmeno a costo della vita,” un grido silenzioso che era insieme dichiarazione d’amore e una condanna alla sua stessa perpetua attesa, un uomo che aveva perso tutto tranne l’unica certezza, il sentimento inestinguibile che provava per lei.

E l’occasione di dimostrare la sua utilità, la sua ragione d’esistere in quel limbo doloroso, si era presentata in modo inatteso, sotto forma di una cambiale pericolosa caduta nelle grinfie di uno strozzino per salvare la casa dell’amica Nalan, una trappola finanziaria che Tahsin aveva disinnescato con il sangue che gli ribolliva nelle vene e la calma glaciale di chi sa negoziare la propria sopravvivenza emotiva, riuscendo incredibilmente a recuperare il debito con una stretta di mano e un pizzico di ironia surreale, chiamando persino “fratello” l’usuraio in quel siparietto che sembrava rubato a un dramma shakespeariano, presentandosi poi davanti a Sumru con la prova tangibile del suo gesto, la cambiale strappata in mano come un trofeo di redenzione. Sumru, tuttavia, lo aveva guardato con occhi disorientati, incapace di distinguere tra la realtà e l’ennesimo trucco di Tahsin per riavvicinarsi, ringraziandolo con voce sincera ma distante, una freddezza che Tahsin non aveva potuto sopportare nel momento in cui Nalan aveva parlato di restituire il denaro, interrompendola subito con l’ennesimo, disperato rifiuto: “Tra noi non si parla di soldi, di debiti, prestiti o cose del genere,” un preludio al suo vero, unico desiderio: “Da te voglio solo una cosa,” una frase che aveva fatto balzare il cuore di Sumru, risvegliando emozioni sopite e pericolose, costringendola a rialzare immediatamente il muro che aveva costruito negli ultimi mesi, il muro della paura che l’amore, quando fa troppo male, diventa odio. Tahsin, annuendo con espressione amara, aveva compreso il messaggio: non avrebbe insistito, non voleva ferirla, ma ogni suo passo, ogni suo gesto, era una dichiarazione eterna, congedandosi infine con garbo, come un uomo che ha perso una battaglia ma non la guerra, lasciandole l’ultima, più dolorosa promessa di un amore ostinato: “Sumru, io rimango qui nei paraggi. Finché non mi ascolterai e non mi perdonerai. Non andrò da nessuna parte. Vivrò qui, magari invecchierò qui,” un giuramento suggellato da una macabra, struggente battuta sulla sua morte e sul cimitero lì vicino, un’ostinazione che aveva strappato a Sumru solo un sorriso ironico, ma gli aveva rubato un’intera notte di sonno.

Nella notte scura, mentre le luci della città continuavano a tremare, Tahsin aveva mantenuto la sua promessa, restando sveglio, innamorato e ostinato, parcheggiato in fondo alla strada come una guardia fedele al suo castello perduto, una vigilanza che Nalan aveva notato dall’alba, confessando a Sumru, con voce pacata ma carica di significato: “Ha passato tutta la notte in macchina,” rivelando che “L’ho visto dalla finestra! era lì immobile, come se aspettasse qualcosa o qualcuno,” una testimonianza che aveva accresciuto l’agitazione di Sumru, combattuta tra l’odio per il male subito e l’accettazione che “Ragazza, quest’uomo è pazzo d’amore per te.” E così, il mattino dopo, l’aria nell’appartamento di Nalan si era fatta densa e tesa, l’odore del caffè mescolato alla tensione di cose mai dette, nel momento in cui Tahsin si era presentato con una rosa per Nalan, un’astuta mossa per abbassare le difese, e aveva finalmente aperto il suo cuore, non a Sumru direttamente, ma a Nalan, in un confessionale in cui ogni parola pesava come pietra e dove aveva rivelato il suo vero, straziante motivo: “Io non sono venuto solo per riconquistarla, io sono venuto per liberarmi,” ammettendo di aver amato Sumru come “luce, una luce accecante per uno come me, abituato all’ombra,” ma di aver proiettato su di lei i demoni che portava dentro, mentendole e nascondendole la verità non per mancanza d’amore, ma per vergogna di se stesso, un’autocritica culminata nella devastante sentenza: “Un uomo debole, codardo, un uomo che ha avuto paura di essere felice,” parole che erano rimaste sospese nell’aria a testimoniare la sua fragilità e il suo rimpianto, una confessione che aveva toccato il profondo, convincendo Nalan che oggi, “per la prima volta l’hai toccata nel profondo.”

Dietro la porta, Sumru tratteneva il respiro, le gambe tremanti, sentendo ogni parola, ogni inflessione della voce di Tahsin, ogni esitazione che smantellava le sue certezze come sabbia tra le dita: l’uomo che aveva tanto odiato non era più un mostro senza volto, ma “carne e dolore, fragilità e rimpianto,” un’epifania che aveva scoperchiato anche la sua verità più a lungo soppressa, quella del giorno in cui si erano lasciati, un momento che lei aveva rimosso, sepolto tra il dolore e la delusione, ma che le era tornato in mente come una ferita ancora fresca, il ricordo di essersi accasciata a terra dopo che lui aveva chiuso la porta, sussurrando come una bambina: “Torna indietro, ti prego, torna,” una preghiera che non aveva mai osato dire a nessuno, nemmeno a se stessa, ma che ora, sentendo le lacrime bagnarle il viso, non di rabbia ma di riconoscimento e nostalgia, le faceva capire che anche lei, in fondo, aveva avuto paura. Verso sera, in un atto che era metà rassegnazione e metà speranza, Sumru aveva ceduto, vestendosi in fretta e furia per uscire, sentendo il bisogno irrefrenabile di camminare, di ripercorrere i quartieri familiari dove ogni angolo, ogni pietra, le parlava della loro storia, un pellegrinaggio emotivo che l’aveva condotta, senza quasi rendersene conto, sotto la terrazza, il loro posto segreto affacciato sul Bosforo, dove il sole stava calando tingendo il cielo di arancio e oro, un luogo che era stato promessa silenziosa e rifugio d’amore, e che ora era il palcoscenico della loro definitiva verità.

Tahsin era già lì, seduto sul cofano della sua vecchia auto, come se aspettasse un segno, e quando l’aveva vista salire, si era alzato come un soldato richiamato all’ordine, ma non aveva parlato, temendo che una parola di troppo potesse farla scappare di nuovo, mentre Sumru si era avvicinata lentamente, la distanza tra loro un’eternità carica di tensione, rispondendo al suo sussurro “Sei ancora qui?” con un laconico “Nemmeno io lo sapevo fino a un’ora fa.” Il loro silenzio era stato interrotto solo dal vento che accarezzava i capelli di lei e dal rumore placido del Bosforo sotto di loro, quando Tahsin, aprendo una piccola scatola, le aveva mostrato la vecchia chiave arrugginita del loro primo appartamento, un simbolo della speranza mai sopita di “poter tornare indietro,” pur sapendo che “Non possiamo tornare indietro, Tassin, lo sai,” un momento in cui l’uomo, guardandola negli occhi, in quegli occhi che gli mancavano ogni giorno, aveva chiesto non la sua pietà né il suo perdono, ma “la tua verità, anche se fa male,” implorandola: “Dimmi che non mi ami più e me ne andrò per sempre.” Il respiro di Sumru si era fermato, le parole bloccate sulle labbra, il cuore in procinto di esplodere, fino a che non aveva trovato la forza di sussurrare la sua mezza verità, la sua agonia: “Io… Io non lo so, Tassin. Non so se ti amo ancora, ma so che non riesco a odiarti,” una risposta fragile che Tahsin aveva accettato con un sorriso pieno di speranza, un sorriso di chi sa che “per me è abbastanza,” tendendole la mano che lei, dopo lunghi, strazianti secondi, aveva preso, sancendo un fragile e incerto ricominciare, mentre sotto di loro la città accendeva le prime luci della sera, lasciando intendere che la notte nel cuore non era sparita, ma si era fatta più lieve, forse, solo forse, poteva lasciare spazio a una nuova, incerta alba.